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Posts Tagged ‘manga’

Vi propongo un interesse articolo di Limes, una delle principali riviste italiane di geopolitica, consultabile online e dedicato agli aspetti politici, storici e sociologici dei manga. Si intitola Manga: il Giappone alla conquista del mondo, e porta le firme di Marcella Zaccagnino e Sebastiano Contrari. Per leggerlo, basta cliccare qui.

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E’ prevista per dicembre 2010 la nuova edizione del fortunato romanzo Gridare amore dal centro del mondo di Kyoichi Katayama in versione manga, con le illustrazioni di Kazumi Kazui (ed. Kappa, pp. 192, € 8,50).
L’editore del libro, Salani, presenta così il suo volume:

Sakutaro sta andando in Australia. Non è una semplice gita: porta con sé le ceneri di Aki, suo primo indimenticabile amore, morta a soli diciassette anni di leucemia. Quando Sakutaro e Aki si incontrano per la prima volta hanno dodici anni e frequentano la stessa classe. Condividono i piccoli grandi doveri della scuola; si vedono tutti i giorni, tornano a casa insieme, ognuno è parte della vita quotidiana dell’altro. Finché un giorno, per la prima volta, Sakutaro vede Aki con altri occhi: non più semplice amica, ma giovane donna, bella e intensa, e si accorge che la loro quieta familiarità si è trasformata, ineluttabilmente e per sempre, in una passione purissima e assoluta.
Una passione che si rispecchia in una vicenda antica, quella del nonno di Sakutaro, che ha amato a sua volta, per cinquant’anni, una donna che non ha mai potuto sposare e al cui ricordo è incrollabilmente fedele, fino a spingersi a compiere un atto estremo. Ma il loro amore non è l’imitazione di un sentimento: Sakutaro e Aki vivono una felicità totale, che la malattia crudele di Aki esalta nel dolore, e che la sua morte recide d’un colpo, lasciando nell’anima di Sakutaro un silenzio assordante.

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Si suole ritenere che la seconda guerra mondiale sia stata vinta dagli statunitensi (in Giappone e altrove) tanto nel campo di battaglia, quanto in ambito culturale; nel contempo, si tendono spesso a trascurare gli apporti intellettuali e artistici non occidentali giunti nel Nuovo mondo.
Il libro di oggi, nel suo piccolo, si propone di compiere un’operazione a rovescio, evidenziando i contributi del Sol Levante alla creazione del mondo pop americano. Il suo eloquente nome è JapanAmerica (Palgrave Macmillan, pp. 256, 14.99 o 18.99 sterline, a seconda dell’edizione) ed è frutto delle fatiche di Ronald Kelts. Da quanto so, il volume, al momento, non è disponibile in italiano.
Ecco uno stralcio della prefazione:

[…] The questions are: Why Japan? And why now?

Japanamerica is an attempt to explore the answers. It is not exclusively focused on Japanese manga (graphic print narratives) or anime–a word that is a Japanese truncation of the English word animation and is applied to all animated images in Japan, but only to Japanese animation in America–nor is it an attempt to analyze, explain, or serve as a guide for the two related media. […]

Instead, I have set out to discover the reasons behind what many cultural historians are calling a third wave of Japanophilia–outsiders’ infatuation with Japan’s cultural character. The first wave occurred in the eighteenth and nineteenth centuries, when European artists discovered a uniquely Japanese aesthetic, and the second in the late 1950s and early 1960s, when beatnik writers and poets were drawn to Japan’s ascetic spiritual traditions.

But what is unique about the current wave is the very modern, even futuristic, nature of the Japanese culture being sought. There are always some Americans interested in iconic totems of Japanese culture, like the bushido samurai tradition that emphasizes honor and discipline, ikebana flower arrangements, tea ceremonies, and Zen. […]

The majority of the material in this book is the result of interviews conducted in the United States and in Japan from March 2003 to the spring of 2006, with some exceptions. I spoke to Nigo, Japan’s hip-hop fashion guru, twice: once in 2002 and once in 2004. And I have interviewed Haruki Murakami, Japan’s most internationally famous and critically acclaimed contemporary novelist, several times since 2000, most recently in 2005.

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Per tutti i disperati che, come me, confondono i kanji, dimenticano di continuo il loro significato e così via, la Kappa edizioni ha compiuto una buona azione:  è infatti fresco di stampa il volume Giapponese coi manga. Impara gli ideogrammi di Chihiro Hattori e Glenn Hardy (pp. 193, 12 euro).
Tanto per rimanere in argomento, ricordiamo anche, sempre della Kappa edizioni, Il giapponese a fumetti. Corso base di lingua giapponese attraverso i manga di Marc Bernabé (pp. 293, € 22) e, sempre dello stesso autore, Il giapponese a fumetti. Vol. 2: Corso intermedio di lingua giapponese attraverso i manga (pp. 208, € 22), appena uscito.
Buone letture.

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Ecco qui un’interessante introduzione alla letteratura giapponese di Virginia Sica, docente di Cultura giapponese presso l’Università Statale di Milano, apparsa nelle pagine di Treccani scuola.

Familiarizzarsi con esempi letterari giapponesi può aiutare a modificare l’inesatto e deviante modello di esotico ‘oriente’ del nostro immaginario collettivo, favorito soprattutto (ma non solo) dai manga e dagli anime, quelle produzioni mediatiche, cioè, che hanno avviato una nuova era di japonisme. Quindi, perché non proporre un indice che spazi dalle origini al contemporaneo e che inviti a riflettere più sulle analogie che non sulle diversità. E i manga? Ben accetti, purché scelti fra la migliore produzione.

La letteratura giapponese fuori dall’immaginario collettivo dell’esotico oriente
L’agile e gradevole Introduzione alla cultura giapponese. Saggio di antropologia reciproca di Nakagawa Hisayasu, (Bruno Mondadori, 2006) rimarca, con misura e ironia, ciò che da (quasi) sempre gli studiosi di ‘cose giapponesi’ ben sanno: che le peculiarità culturali del Giappone vengono percepite come esotiche e appartenenti a un ‘lontano estremo oriente’ sotto l’urto di un’informazione massificante e lacunosa, che travalica nei luoghi comuni. I quali si sommano, ben inteso da entrambe le parti, ai luoghi comuni sul sé e sulla propria identità culturale. Un processo che, la storia ci insegna, viene spesso intenzionalmente assecondato da svariate egemonie, siano esse di natura politica (restyling dell’immagine del Paese sentita come compromessa da eventi storico-sociali) che di natura economica (strategie di marketing connesse alla pulsione al consumo). Un pur elementare approccio alla letteratura giapponese può certamente sembrare problematico quando avulso da un contesto storico; tuttavia, una riflessione sulle analogie con elementi culturali a noi familiari può ridurre la distanza avvertita come invalicabile e fornire risultati stimolanti. E per ogni macro-periodo della storia del Giappone potremmo selezionare efficaci esempi letterari.

Mitologia a confronto
Una delle correlazioni più diffuse e scontate è l’equivalenza fra cultura giapponese, nella sua globalità, e spiritualità buddhista. Allusioni o riferimenti espliciti (quando non addirittura funzionali) sono evidenti in molti manga e anime (fumetti e cartoon giapponesi) e nell’ambito dei media indirizzati alle utenze più varie. Del macrocosmo buddhista, poi, la spiritualità, l’etica e l’estetica cui in maggior misura si fa riferimento sono quelle attinenti allo zen, tralasciando che la cultura giapponese si è nutrita di apporti autoctoni (già preesistenti all’introduzione dalla Cina – mediata dalla Corea – del Buddhismo, nel corso dei secoli IV-VI) e continentali sapientemente amalgamati. Così, senza rinnegare il contributo culturale veicolato dagli ambienti buddhisti fin dalle origini delle fonti scritte giapponesi, ci si può accostare a quella letteraria più antica, il Kojiki (“Racconto di antichi eventi”), per familiarizzarsi con lo shintoismo, la forma di religiosità più antica del Paese, e stimolare una comparazione con i miti nostrani. Il Kojiki, datato 712 d. C., è il compendio di tradizioni indigene, locali e nazionali, tramandate fino a quel momento oralmente; con l’introduzione, contestuale a quella del Buddhismo, del sistema di scrittura, si poteva ora avviarne la registrazione, modellandola sulle grandi opere della storiografia cinese, per garantire allo Stato giapponese una sua storicità, abbellita da ascendenze mitico-leggendarie ed epiche.
Ciò che interessa qui sottolineare sono le svariate analogie con la mitologia greco-romana. Tanto per citarne alcune, il dio Izanaki e la dea Izanami che si incontrano nuovamente nel mondo delle tenebre troppo ricordano infatti i miti di Orfeo ed Euridice come anche di Persefone. D’altro canto, la stessa madre Demetra, nel suo ritiro ad Eleusi, presenta assonanze con la narrazione che vede la dea del sole Amaterasu ōmikami (sovrana dell’olimpo mitologico giapponese da cui, ufficialmente fino al 1946, si è fatta risalire la stirpe imperiale) rifugiarsi in una celeste dimora rocciosa, offesa da crimini impuri perpetrati dal fratello Susanoo no mikoto. È plausibile che una lettura poco più accurata rischi di portarci nei meandri della controversa questione sulla monogenesi o poligenesi degli hieroi logoi (questione dibattuta, in particolare sul Giappone, sin dal primo ventennio del ‘900, poi sulle orme dello strutturalista G. Dumézil (1898-1986), fino allo storico delle religioni ed antropologo A.M. Di Nola negli anni ’70). Il Giappone dei secoli VII-VIII, infatti, intratteneva rapporti con una Cina che aveva conosciuto il mondo nestoriano che, a sua volta, aveva mediato molta classicità mediterranea. Ma, in fin dei conti, senza scomodare civiltà eurasiatiche nutrite da eterogenee influenze di possibili matrici indoeuropee, il Kojiki si presta a piani di lettura anche meno impegnativi (la più recente traduzione e analisi critica dell’opera è Kojiki. Un racconto di antichi eventi, a cura di P. Villani, Marsilio, 2006).

Fantastico e fiabesco
Per i secoli a seguire, le opere di letteratura furono per lo più prodotte dagli aristocratici e destinate ai loro pari. È vero che l’antologia poetica ufficiale più antica, il Man’yōshū (Raccolta di diecimila foglie) della II metà del VIII secolo, non ha mai cessato di essere modello di riferimento estetico per la poesia e la prosa giapponesi, fino in tempi contemporanei, pur con un adeguamento alle mutazioni contingenti. Ma certo quest’antologia, già di per sé di non semplice lettura, testimonia un’arte patrizia, poco attenta all’aspetto orale e, quindi, collettivo. Quest’ultimo, invece, può essere affrontato, stavolta diacronicamente, attraverso le fiabe e leggende, in cui convergono, in molte varianti, tradizioni locali anche millenarie. Anche questo ambito di lettura può essere condotto comparativamente, tenendo presente, però, un’iniziale percezione di distanza psicologica: le fiabe della nostra infanzia non potevano considerarsi tali senza il lieto fine d’obbligo e il neppure troppo sotteso invito alla redenzione o punizione dei ‘cattivi’. Ma la saggezza popolare giapponese non sempre premia o riscatta i ‘buoni’; soprattutto, non ruota intorno ad una visione antropocentrica. Gli esseri umani, qui ridimensionati (o, secondo i punti di vista, ‘promossi’) si misurano con le divinità della natura e infinite forme di loro rappresentanti (spesso messaggeri) animali: volpi, tassi, gru, usignoli, serpenti e carpe, ognuno con una propria simbologia immediatamente percettibile eppure, secondo l’area geografica di appartenenza del racconto, mai sempre uguale a se stessa. Ciò comporta che di fate e di principi azzurri ce ne siano ben pochi. Ma anche così possiamo ritrovare molti richiami ad un fiabesco a noi più familiare. Per tutti valgano i temi della “stanza proibita” e della metamorfosi animale/essere umano.
Qui però il percorso va condotto sulle varianti più che sulle analogie: per la fiaba giapponese, infatti, la vita non presenta aspetti eroici e, per default, la morte è meno drammatica. In quanto alla metamorfosi, sono gli animali a trasformarsi temporaneamente in esseri umani, non il contrario. Qualche analogia, tuttavia, non va esclusa a priori, in particolare per quelle narrazioni di saggezza del buon senso rurale, che ci rimanderanno invariabilmente a immortali personaggi dei fratelli Grimm. Questo indirizzo di lettura, in tutti i suoi aspetti poliedrici, può essere agilmente condotto su Fiabe giapponesi (a cura di M.T. Orsi, Einaudi, 1998).

Buddhismo e introspezione
Dalla II metà del IX secolo si inaugura la tradizione dei monogatari (letteralmente ‘raccontare i fatti’ e, quindi, ‘racconti’). Anche qui le radici affondano nella tradizione orale ma, privilegiato dal mondo curtense, questo genere letterario finisce con il solo ispirarsi ad essa, creando opere destinate, sembra, alla lettura a voce alta per l’aristocrazia femminile. Su tutti campeggia, come sintesi più alta della diaristica e della poesia di corte, intriso di elementi e rimandi buddhisti, il notissimo Genji monogatari (Storia di Genji, anno 1000 ca.) della dama di corte nota come Murasaki Shikibu (ca. 973-1014). Certamente una lettura del Genji si rivela molto impegnativa (quanto meno per la mole) e, se avulsa da un quadro storico, dall’analisi dei modelli retorici ed estetici imperanti e dai fondamenti dottrinari del Buddhismo, anche deviante.
Così, per familiarizzare con una prosa che certamente è pervasa di uno spirito buddhista ma è soprattutto esempio di letteratura dell’introspezione, consiglierei il breve capolavoro del 1212 di letteratura del romitaggio, Hōjōki (Ricordi di un eremo, a cura di F. Fraccaro, Marsilio, 2004) del poeta eremita Kamo no Chōmei (1153-1216). Oltre tutto, l’opera ci fornisce spunti realistici sulla trasformazione storica e sociale del periodo, che vide il passaggio dai dominanti valori estetici della corte a quelli del ceto militare provinciale, salito al governo ufficialmente nel 1185. Un transito storico che, come ci indica l’autore, fu sofferto e ambiguo per tutti i suoi attori, nonostante l’irriducibile mito dei samurai senza macchia e senza paura.

Cappa e spada
Ciò che va sotto il comune denominatore manga è, in realtà, un vasto universo in cui convergono tematiche quanto mai diversificate. Una di quelle che riscuote maggior successo concerne le sanguinose lotte di potere di ambientazione storica, per così dire ‘in costume’. Così, personaggi originariamente storici hanno finito con l’essere sottoposti ad un vero e proprio vernissage leggendario. Risulterebbe quindi probabilmente gradito Shura (I demoni guerrieri, a cura di M.T. Orsi, Marsilio, 1997) di Ishikawa Jun (1899-1987) che, pur essendo autore di periodo molto posteriore, riscrive con rigore storico il belligerante periodo Ōnin (1467-1469), coincidente con il collasso della casata militare degli Ashikaga al governo del Paese e la definitiva emersione dei forti poteri militari delle province. Pur tuttavia, nel dare vita ai personaggi (reali e di fantasia) e alle loro intime motivazioni, l’autore fa cosciente ricorso ad elementi folcloristici tradizionali.

La letteratura a misura di cittadino
La guerra dell’Ōnin era stato l’incipit di un’epoca nota come sengoku jidai (periodo dei paesi combattenti), protrattasi per quasi un secolo. Si era poi avviata la riunificazione, non meno sofferta e devastante, ad opera di eminenti strateghi militari, fino alla salita al potere della casata dei Tokugawa. Il centro politico del Paese venne spostato nell’attuale Tōkyō (allora Edo), il processo di centralizzazione del potere giunse al suo culmine, le riforme economiche e politiche fecero il resto. La ‘pace’ Tokugawa (1603-1867) assisté a una veloce urbanizzazione e alla coerente emersione di un ceto cittadino, in prevalenza mercantile, effetto ma anche, ellitticamente, causa stessa della diffusione dell’istruzione, accompagnata dall’incremento della stampa a costi sempre più contenuti.
È questa l’epoca che vede la nascita dello scrittore professionista e, fra tutti, spicca la figura di Ihara Saikaku (1642-1693), egli stesso mercante in Ōsaka, che, ispirandosi all’attualità e ad eventi di cronaca cittadina, diede voce al proprio ceto di appartenenza e ai contesti in cui esso si muoveva abitualmente: le strade cittadine, le botteghe, le case di piacere (luogo di divertimento, perdizione, ma anche – e soprattutto – luogo di incontri per nuovi affari e di scambi di idee). Tutto quel mondo minuziosamente descritto negli ukiyoe, le stampe del “mondo fluttuante”, oramai ampiamente note ai più. Per la loro struttura, l’immediatezza del linguaggio, la carica umoristica e l’appealing intrigante, la lettura di alcuni racconti di Ihara può generare ampi spazi di dibattito con un pubblico studentesco (Vita di un libertino, Guanda, 1988; Cinque donne amorose, Bompiani, 1989; Vita di una donna licenziosa, ES, 2004, titoli in trad. di L. Origlia; Storie di mercanti [racconti vari], a cura di M. Marra, Tea, 1988; Il grande specchio dell’omosessualità maschile, a cura di A. Maurizi, Frassinelli, 1997).

Tempi moderni
La ‘pace’ Tokugawa si interruppe molto prima della caduta ufficiale del governo militare; stavolta, però, i disordini non furono causati dalle sole brame di potere interne ma anche dall’inevitabile confronto con le potenze straniere. Il Giappone, incalzato ad aprirsi ai mercati e alla diplomazia internazionali, in parte promosse, in parte si arrese alla necessità di una ‘restaurazione’ della figura imperiale, mantenuta in sordina per secoli ma ora fondamentale come referente politico moderno. Contestualmente si rendeva inderogabile una modernizzazione del Paese, troppo a lungo ufficialmente isolato in nome di una salvaguardia del territorio e dei costumi nazionali. Così la Restaurazione dell’era Meiji (1868-1912) vide pressanti riforme strutturali di ambito tecnologico, commerciale, giuridico, politico e sociale; inevitabilmente, però, gli eventi coinvolsero e travolsero costumi e stili di vita, anche nell’accezione di una illusoria corsa all’occidentalizzazione.
La generazione letteraria Meiji, naturalmente, non ne fu indenne e in ogni opera è testimoniata, con variabile consapevolezza, la destabilizzazione dell’individuo di fronte alla crisi di identità singola e collettiva. Fra i numerosi letterati rappresentativi del periodo, la scelta cade su Natsume Sōseki (1867-1916) e, nel panorama della sua produzione, su Kokoro (Il cuore delle cose, trad. di N. Spadavecchia, Neri Pozza, 2001) e Sanshirō (a cura di M.T. Orsi, Marsilio, 1990), ritratti indelebili della solitudine interiore dell’uomo, della disgregazione dei valori di riferimento, dell’impatto tra l’atavica predominanza della comunità di appartenenza e la moderna emersione dei valori dell’individuo. Qui non vi sarebbe alcun bisogno di suggerire spunti particolari per piani di lettura comparativi, per le molte affinità storiche nella stessa Europa e per la ricchezza di opere dai temi analoghi. Tuttavia, memore di un bel lavoro di ricerca del giovane studioso Giuseppe Russo, mi permetto di proporre una lettura di Natsume Sōseki in accostamento a L’Immoraliste (1902) di André Gide e a I vecchi e i giovani (1913) di Pirandello.
Un periodo molto complesso quello Meiji, necessariamente esposto ad una lettura non solo letteraria ma soprattutto storica, che fornisca gli strumenti per comprendere l’ingresso del Giappone nella storia internazionale con i successivi sviluppi dalle ripercussioni mondiali. Ci può venire in aiuto anche uno strumento alternativo di sicuro gradimento e che ci offre uno spaccato coinvolgente della transizione Meiji e nozioni sugli intellettuali che la popolarono; stavolta si tratta di un manga, ma qualitativamente (per grafica e contenuti) ineccepibile: la traduzione italiana, seriale, di Bocchan no jidai (Ai tempi di Bocchan, Coconino Press, dal 2001) di Taniguchi Jirō e Sekikawa Natsuo, vita a fumetti di Natsume Sōseki.

Dalla “neve sottile” alla “pioggia nera”
Nel 1983 il regista Tinto Brass realizzò la pellicola La chiave, ispirandosi liberamente ad una delle opere di Tanizaki Jun’ichirō (1886-1965), esponente di una letteratura che, in un equilibrio mai precario, associa temi e atmosfere tradizionali a elementi di modernità fin provocatoria; i temi ricorrenti sono la sensualità – anche morbosa –, l’ambiguità, la complessità della psicologia dell’individuo, inesorabilmente distinta in maschile e femminile. Si può familiarizzare con Tanizaki scegliendo tra i capolavori raccolti in Opere (a cura di A. Boscaro, Bompiani, 2002); tuttavia In’ei raisan(Libro d’ombra, a cura di G. Mariotti, trad. di A. Ricca Suga, Bompiani, 2000), riflessione saggistica – non romanzo – del 1933, con la sua critica ferma (seppur espressa con toni misurati, oscillanti tra nostalgia ed ironia) è il testo che meglio si presta per un confronto su ciò che viene indicato come il peculiare sentire estetico giapponese, ‘incomprensibile’ ad altre culture. Certo questo indirizzo di lettura dà adito a dubbi su una posizione nazionalista dello scrittore, in un periodo storico compreso fra i due conflitti mondiali, per l’apologia dell’estetica nazionale e della sua supremazia su un’estetica improntata ad una funzionalità tecnologica. Il dibattito quindi si apre su una dichiarata e difesa diversità, sull’arroccamento alla tradizione, sul tema del ritorno al passato, sui doppi sensi della multiculturalità. Più impegnativo, ma suscettibile di analisi delle stesse tematiche (e oltre) Sasameyuki (Neve sottile, trad. di O. Ceretti Borsini, Guanda, 2006), quasi una saga familiare che vede protagoniste quattro sorelle, diverse per personalità e per adattamento ai tempi moderni.
Conclusosi il devastante secondo conflitto mondiale, molti intellettuali giapponesi, come reazione allo scardinamento di atmosfere e costumi quotidiani adesso ‘americanizzati’, svilupparono un’attitudine alla tutela della tradizione (già appartenente a precedenti fasi storiche di fronte alle crisi culturali, di valori, di identità d’appartenenza). Come maggiori esponenti della letteratura dell’epoca, insieme con Tanizaki, sono universalmente riconosciuti Kawabata Yasunari (1899-1972) e Mishima Yukio (1925-1970). L’editoria italiana di grande diffusione ci ha ormai reso estremamente familiari i loro nomi. Oltretutto, le rispettive tematiche e ricerche stilistiche confortano, al lettore improvvisato, il credo in due luoghi comuni dell’immaginario collettivo: Kawabata e l’estrema ricerca estetizzante; Mishima e l’apologia del nazionalismo, del mito dei samurai, dell’anacronismo politico. Di Mishima è familiare anche la tipologia di suicidio, perché clamorosa, intrigante, rispondente ad una coerenza ideologica. Riduttive, scontate persino queste letture di Kawabata e Mishima ed è mia ferma convinzione che i due letterati meritino spazi ed inquadramenti molto ampi, per evitare strumentalizzazioni e letture devianti (per Kawabata, Romanzi e racconti, a cura di G. Amitrano, Mondadori, 2003; per Mishima, Romanzi e racconti 1949-1961, vol.I e Romanzi e racconti 1962-1970, vol. II, entrambi a cura di M.T. Orsi, Mondadori, 2004-2006).
Più consono ad un piano di didattica che contempli temi fortemente d’attualità mi sembra un riferimento alla cosiddetta genbaku bungaku, ‘letteratura dell’atomica’ che, nel proprio panorama, registra la dolente testimonianza di Ibuse Masuji (1898-1993) con Kuroi ame (La pioggia nera, a cura di L. Bienati, Marsilio 2005) del 1965.
Una consueta richiesta viene posta in merito alla figura della donna nella cultura giapponese. Trovo che anche qui imperversi un mito culturale (stavolta sminuente) al quale piace registrare il ruolo femminile in Giappone più mortificato e negato di quanto non sia avvenuto nella ‘civile’ Europa. Il problema è che, nella coscienza collettiva, ruolo femminile in Giappone fa genericamente rima con geisha, quell’intrigante modello foriero di chissà quali inconfessabili arti che, in fin dei conti, il vecchio continente non ha conosciuto. Ne siamo proprio certi? Detto questo, interessante può rivelarsi una letteratura scritta da donne, che risuona della loro voce ma che non si limita a raccontare solo un mondo femminile ma che denuncia ansie e battaglie sociali, culturali, in una parola storiche, di cui le donne fanno naturalmente parte. Temi a noi ancora attuali quelli proposti dalle protagoniste di Enchi Fumiko (1905-1986) in Onnazaka (Il sentiero nell’ombra, trad. di L. Origlia, con una nota critica di C.Vasio, Giunti 1987) del 1949 e Onnamen (Maschere di donna, a cura di G. Canova Tura, con un saggio introduttivo di M.T. Orsi, Marsilio 1999) del 1958. Riflessioni sulla maternità e sui suoi stretti nodi di libertà e schiavitù ci vengono invece riproposti da Chōji (Il figlio della fortuna, a cura di M.T. Orsi, Giunti 1991) di Tsushima Yūko (n. 1947).

Esotismo moderato e appagante
Un’ultima riflessione sulla produzione di romanzi contemporanea, che meriterebbe un dibattito a parte, ampio e impegnativo: innanzitutto perché rispecchia un bisogno (anche commerciale) di omologazione – già ravvisabile dai primi decenni del ‘900, ma esploso nel secondo dopoguerra – condotta su modelli europei e statunitensi; poi perché favorisce la proliferazione di saggi allarmisti su una presunta crisi d’identità culturale dei giapponesi. Frattanto Murakami Haruki, Banana Yoshimoto, Yamada Eimi riscuotono planetariamente un facile successo; temi, stili di vita e linguaggio comuni, che rispondano a una scontata globalizzazione delle nuove generazioni ma che siano, al contempo, sufficientemente esotici, con sparsi elementi fantastici, da convincere un pubblico internazionale di trovarsi di fronte a una letteratura ‘genuinamente giapponese’.

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Certi giorni come questi, all’improvviso, nella mia mente riafforano libri letti cercati desiderati, cui non pensavo più da anni.
Perché i giapponesi hanno gli occhi a mandorla
di Keiko Ichiguchi (Kappa Edizioni, 2004, pp. 158, 12 €) è uno di questi. Mi rievoca pioggia treni e borse pesanti. Ma non preoccupatevi: il volume in sé non ha nulla di malinconico, anzi.
L’autrice, grazie alla lunga permanenza in Italia, ha imparato a guardare al suo paese con ironia e, allo stesso tempo, rispetto. Nel libro, Keiko affronta un ventaglio abbastanza ampio di argomenti, senza approfondirli molto, concentrandosi in modo particolare sul suo campo, vale a dire i fumetti (lei è, infatti, un’apprezzata disegnatrice di manga, ossia una mangaka).
Ciò, unito allo stile scorrevole e leggero, fa del volume una lettura adatta soprattutto ai più giovani o a chi vuol scoprire qualche curiosità sul Giappone.

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Per evitare brutti scherzi della memoria e, soprattutto, tenere sott’occhio libri che m’interessano, ho preparato questo memorandum delle uscite e delle ristampe 2009 relative alla saggistica dedicata al Sol Levante. Di certo, avrò dimenticati parecchi titoli: quindi, chi volesse darmi una mano a rimpolpare la lista, è il benvenuto. 🙂 Nei prossimi giorni, pubblicherò anche le liste relative ad altri ambiti (narrativa, poesia, etc.).

*Saggistica*
Enciclopedia dei mostri giapponesi di Shigeru Mizuki (Kappa Edizioni, pp. 512, € 24)
L’anima nascosta del Giappone di Marcella Croce (Marietti, pp. 120, € 30)
Il crisantemo e la spada-Modelli di cultura giapponese di Ruth Benedict (Laterza, pp. 366, € 20)

*Saggistica d’arte*
Utamaro e il quartiere del paese di Gian Carlo Calza (Mondadori illustrati-Electa, pp. 80, € 19)
Design giapponese di Paola Antonelli e Sparke Penny (5 continents, pp. 160, € 29)
Lo zen e il manga-Arte contemporanea giapponese di Fabriano Fabbri (Mondadori, pp. 352, € 38)

*Saggistica storica*
L’esercito dell’Imperatore-Storia dei crimini di guerra giapponesi 1937-1945 di Jean-Louis Margolin (Lindau, pp. 655, € 32)
La vera storia dei kamikaze giapponesi-La militarizzazione dell’estetica nell’Impero del Sol Levante di Emiko Ohnuki-Tierney (Mondadori, pp. 400, € 12)

*Zen*
Lo zen e la cerimonia del tè di Kakuzo Okakura (SE, pp. 112, € 13)
Lo zen e l’arte di disporre i fiori di Gusty Herrigel  (SE, pp. 112, € 13)
Antologia del buddhismo giapponese (Einaudi, pp. 360, € 26)

*Curiosità*
Un geek in Giappone di Hector Garcìa (Panini comics, pp. 168, € 15)

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Con questo articolo, il blog festeggia il suo primo anno di vita.
Ho deciso di ringraziare voi lettori di Bibliotecagiapponese a modo mio, segnalando ebook e link utili per saziare la vostra fame di letture:

Yukichi Fukuzawa and the making of the modern world di Alan Macfarlane
Manga a volontà (ma non in italiano)
Hana di Akutagawa Ryūnosuke (in giapponese, con audio):
Poesia Kokeshi Dolls di Banana Yoshimoto
Lineamenti di storia della lingua giapponese di Aldo Tollini

Post scriptum: mi scuso con tutte le persone che hanno lasciato un commento e alle quali non ho ancora risposto. Vi prego di pazientare ancora un po’.

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Qualcuno crede che i manga siano adatti solo ai bambini.
Qualcun altro pensa, invece, che oramai, a distanza di più di sessant’anni, sia possibile dimenticare Hiroshima.
Qualcun altro ancora ritiene, invece, che i manga e Hiroshima messi insieme possano far sì che la tragedia non sia dimenticata e riesca, attraverso il linguaggio diretto e artistico del fumetto, a coinvolgere un maggior numero di persone.
Con questi intenti è nata Barefoot Gen (はだしのゲン, Hadashi no Gen), una serie di manga firmati da Keiji Nakazawa che rivolgono la loro attenzione proprio ai drammatici giorni dello scoppio delle bombe atomiche e alla difficilissima esistenza dei sopravvissuti. Tra questi figura anche il piccolo Gen che tenta, insieme alla sua famiglia, di andare avanti, nonostante gli stenti: malnutrizione, scarsità di cibo, sofferenze fisiche e psicologiche rendono infatti la quotidianeità un inferno. I disegni, a noi abituati alla grafica di alto livello, potranno apparire semplicistici e ingenui, ma hanno il dono di rappresentare con pochi tratti lo stato disperato e commovente della situazione.
Qui
potete trovare una parte del volume Barefoot Gen: The day after; qui sotto, invece, un video tratto da uno dei tre film ispirati al manga.

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Dato che il fine settimana si avvicina e la stanchezza si fa sentire, “stacco” dai soliti libri e dedico il post al mondo degli anime e dei manga, segnalandovi alcuni eventi.
Innanzitutto, a Torino, presso la Mole antonelliana, è iniziata da poco tempo la mostra Manga Impact, che si concluderà il 17 gennaio 2010.
Per gli abitanti della capitale, invece, all’Istituto di cultura giapponese di Roma, il 20 ottobre, alle 18.30, si terrà una conferenza dedicata agli anime e ai manga.
E per chi, invece, non può spostarsi da casa? Basta mettere sul comodino il volume L’incanto del mondo. Il cinema di Hayao Miyazaki, di Anna Antonini (ed. Il Principe Costante,pp. 192, 14 €). E questa la recensione di Giulia Mozzato:

Sebbene sia spesso critico verso la letteratura giapponese per ragazzi, si dichiari ammiratore di autori occidentali per l’infanzia e abbia molto in comune con Carroll e Saint-Exupéry, Miyazaki non può prescindere da ciò che è peculiare della sua cultura d’origine. Il risultato è una mediazione tra culture in cui l’armonia finale è data dal fondersi di diverse concezioni del mondo e del narrare. La scelta di tali elementi sembra seguire le modalità del pensiero giapponese: ciò che funziona, è suggestivo ed è concretamente utile all’economia del racconto viene conservato e assorbito. E poco importa se arriva da Oriente o da Occidente.”
Sono tanti i professionisti dell’animazione che in questi anni hanno percorso nuove strade sia da un punto di vista prettamente tecnico che per ciò che riguarda l’ideazione e la realizzazione di storie originali.
Come tutti sanno in questa direzione sono andati molti autori giapponesi, alcuni dei quali totalmente sconosciuti in Italia dove persiste un certo pregiudizio sulla qualità delle loro opere. Non è il caso di Miyazaki Hayao, ormai osannato dalla critica (la giuria del Festival del Cinema di Venezia quest’anno gli ha attribuito il Leone d’oro alla carriera ed è solo l’ultimo di una serie importante di riconoscimenti europei) e amatissimo dal pubblico. La città incantata, ad esempio, Orso d’oro nel 2002 a Berlino, è uno di quei film che difficilmente trovano detrattori.
Così come pare sia destinato a ricevere solo elogi l’ultimo lungometraggio proprio in questi giorni nelle nostre sale, Il Castello Errante di Howl.
Alla luce di tutto ciò ha sicuramente un senso cercare di conoscere meglio la sua storia professionale, ripercorrendone le tappe che vanno dai serial televisivi destinati al grande pubblico, ma non per questo meno curati nella loro realizzazione, come Heidi (chi non la ricorda?), Anna dai capelli rossi, Lupin III, Il fiuto di Sherlock Holmes, per citarne alcuni conosciuti anche dal pubblico italiano.
Anna Antonini innanzitutto affronta e smonta nell’Introduzione alcuni pregiudizi radicati sull’opera dei disegnatori giapponesi: dal motivo per il quale realizzano occhi grandi e rotondi a quello per cui hanno spesso scelto storie tradizionali europee anziché narrazioni nipponiche. E ci ricorda che la prima serie televisiva prodotta al di fuori degli Stati Uniti ad arrivare in Italia nel 1975, Vicky il vichingo, era già una coproduzione della tedesca Munchen Merchandising e della Toei Doga, colosso dell’animazione giapponese dove a lungo ha lavorato Miyazaki: ma quanti lo sapevano?
Nel 1985 Miyazaki e l’amico e collega Takahata fondano lo Studio Ghibli, che ancor oggi gestisce tutte le fasi di produzione e postproduzione delle sue opere, “battezzandolo sì con il nome del vento, ma soprattutto con il nome di un aereo da guerra italiano di cui Miyazaki ama particolarmente il design”. Divertente e illuminante la citazione dello stesso autore che offre una chiave di lettura di due suoi capolavori, Kiki’s Delivery Service (1989) e La città incantata, paragonando molti momenti delle due storie con “un esordio nel mondo dell’animazione” e le successive difficoltà di lavoro e di rapporti. “La strega Yubaba è il signor Suzuki, il presidente dello studio Ghibli. Il funzionamento e l’organizzazione del bagno termale sono in effetti molto simili a quelli della nostra società. Chihiro potrebbe essere considerata una giovane disegnatrice appena arrivata”. L’avreste mai immaginata una simile metafora? Tutto il saggio del resto è costellato di curiosità e scoperte, affiancate a un’analisi approfondita dei singoli aspetti dell’intera opera del disegnatore: dalle origini alle fonti d’ispirazione, dalle tecniche più raffinate alle difficoltà pratiche, dalla scelta dei personaggi (predilette le protagoniste femminili) alle ambientazioni. E in appendice dettagliate schede filmografiche dei suoi lavori più importanti e una filmografia completa.

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