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(Attenzione: il post contiene anticipazioni sulla trama)
Ogni tanto tento di sfidare i miei pregiudizi su Banana Yoshimoto (che poi tanto pre- non sono, in quanto frutto della lettura di  almeno sei-sette volumi della stessa). Fatto sta che ho da poco terminato di leggere Chie-chan e io (Feltrinelli, pp. 142, € 10), incentrato sull’intenso rapporto intercorrente tra la quarantenne Kaori – consulente per un negozio di importazioni italiane in Giappone – e la cugina nonché convivente Chie-chan, di poco più giovane, riservata e immersa nel proprio mondo fatto di semplici gesti e piccole cose.
Da più di un lettore l’opera è stata definita un romanzo della maturità, etichetta che – secondo il mio modesto parere – in questo caso può esser giustificata a mala pena solo dall’età delle due donne. Perché Kaori, in fondo, ripropone ancora una volta sentimenti e aspetti tipici delle giovani protagoniste della Yoshimoto; oltre tutto, il suo attaccamento (che mi pare essere ai limiti del morboso) a Chie-chan e le sue relazioni non proprio piane col sesso maschile (guarda caso, il suo primo amore è stato un uomo molto più grande di lei) mi sembrano essere fenomeni circoscrivibili alla fase adolescenziale, piuttosto che a quella adulta. Non a caso, Kaori confessa:

[…] decidere è una cosa che fanno gli adulti, e forse io non lo ero mai diventata davvero, e per questo non volevo mai prendere nessuna decisione. (p. 33)

Qualcuno potrebbe ribattermi che, in realtà, Kaori non vuol fare scelte per lasciare aperte tutte le strade della propria vita e goderne momento per momento. Sarà.
Vogliamo ora parlare del rapporto con l’Italia, che la protagonista afferma di amare così tanto? Già dall’inizio, si parte con il piede sbagliato:

[…] mio primo viaggio in Italia, quando ero stata a Napoli con la mia famiglia. E’ vero, non fu piacevole esser presi di mira da un ladro […]” (p. 35)

Questo è solo uno dei numerosi commenti negativi sull’Italia che punteggiano l’opera. Difatti,  non soltanto i rifornitori italiani spediscono (di proposito) un quantitativo di merce minore rispetto a quella richiesta (p. 49), ma, come se non bastasse,

[D]urante il viaggio [in Italia] fui seguita con insistenza da uno strano tipo che mi venne dietro sino all’albergo; […] mangiai del prosciutto crudo andato a male che mi procurò un terribile mal di pancia; a causa del condizionatore difettoso dell’albergo presi il raffreddore. Si susseguirono tante cose sgradevoli di questo tipo che quasi mi portarono a odiare l’Italia e questo lavoro. (p. 56)

Nel nuovo albergo invece l’ascensore c’era, anche se malandato e cigolante […] (p. 56)

Mi fermo qui per non diventare noiosa. Comunque, le mie citazioni non hanno un carattere patriottico, ma vogliono semplicemente sottolineare il grazioso quadretto che emerge dell’Italia e, in particolare, delle principali città del bel (?) paese.
E passiamo ora alla sensibilità tanto apprezzata dai fan di Banana. Glisso sui giudizi bacchettoni riguardo i gruppi hippie (costituiti da persone pelose senza regole, né reggiseno) e passo direttamente a uno dei punti del libro che mi ha colpito di più. Qui parla Chie-chan:

Mia madre era rimasta incinta ma aveva perso il bambino. Proprio nello stesso periodo, per uno strano caso c’era nella comunità una donna giapponese che, dopo essere stata violentata da uno sconosciuto, anche lui giapponese, era rimasta incinta. La donna portò a termine la gravidanza ma quando nacque la bambina non riuscì ad accettarla, ebbe una forte depressione, e alla fine si uccise. Mia madre prese allora la bambina e decise di allevarla come sua figlia. Quella bambina sono io. (p. 102)

Che situazione triste e commovente; <<povera donna, il suo gesto è comprensibile>>, penserete voi. E invece no. Difatti, Kaori, riflettendo sulla condizione della presunta cugina, si esprime così:

Chie-chan, che per me era così importante, […] era stata trattata dai suoi veri genitori nel modo più irresponsabile. Avevano pensato solo a se stessi. Pensai che se mi fossi trovata a concepire un bambino in una situazione del genere, probabilmente avrei abortito. Ma certo non sarei sparita dopo averlo fatto nascere. (p. 103)

Non soltanto le due versioni non sembrano combaciare ma, inoltre, i giudizi appaiono davvero superificiali e contraddittori.
Insomma: anche questo libro di Banana Yoshimoto non mi ha convinta. Sarà (forse) per il prossimo.

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Molti libri si vantano di portare luce sul “Mistero Giappone” (per riprendere il titolo di un bel numero di <<Limes>> di qualche tempo fa), avventurandosi in spiegazioni culturali e antropologiche poco comprensibili o riduttive.
Forse è per questo che sono rimasta colpita dall’intelligente semplicità di Giapponesi si nasce (Aletti, pp.164, € 14) di Paolo Soldano, giornalista trapiantato nel Sol Levante. Per illustrare la sua nuova patria, l’autore non sale in cattedra, ma lascia che siano i piccoli e grandi eventi a parlare, a raccontare quel Giappone che talvolta tentiamo di ingabbiare in miti e stereotipi.
La realtà nipponica – ci mostra Soldano con rispetto e, al tempo stesso, ironia – è cangiante, contraddittoria, a tratti impietosa o tenera. Insomma: così simile e così diversa dalla nostra, che non si può non guardare ad essa senza curiosità e, sotto sotto, un sorriso.

Qui sotto, qualche estratto del libro, tratto da http://giapponesisinasce.com:

<<Ogni volta che mi capita di guardare la tv giapponese non riesco a non scuotere la testa: telegiornali che aprono su un piccolo incidente tra auto nella periferia di Tokyo, programmi comici o pseudo tali, televendite con ogni sorta di inutile oggetto (avete presente la plastica trasparente da imballaggio, quella che si usa per evitare che piatti, vetri o bicchieri si rompano, e che in realtà è stata inventata solamente per avere il piacere di scoppiare le bollicine piene d’aria? Beh, in Giappone hanno inventato un piccolo dispositivo portatile, che funge anche da portachiavi, che simula la mitica plastichina sia dal punto di vista tattile che sonoro). Insomma, programmi del genere. L’altro giorno però hanno superato ogni limite. Servizio giornalistico da inchiesta: inquadrature strette e rallentate su un uomo in manette, racconto con dovizia di particolari sul “maniaco”, interviste a volto coperto a più donne sue vittime. Penso a stupri, violenze, abusi di ogni genere, ma non riesco a cogliere il reato di cui si sarebbe macchiato l’arrestato fino a quando, esattamente come tutte le polizie del mondo fanno, non viene mostrato sul tavolo il materiale sequestrato nella casa dell’uomo: mutandine. […]>>

[…]

<<È una domenica sera come tante altre, e gironzolo per le strade strette della Osaka by night. Questa volta però sono accompagnato da un’amica giapponese che parla italiano, e che ha una gran voglia di spiegarmi tutto quello che la mia ignoranza della lingua giapponese non mi permette di cogliere. È così che faccio la mia conoscenza dei posti più ambigui e perversi di questa città: locali, bar, club e anfratti vari dove un’umanità sempre in cerca di qualcosa si confronta ogni sera. Non c’è bisogno di sforzarsi troppo, esistono perfino speciali uffici informazioni dove rivolgersi se si hanno delle esigenze particolari. Alla faccia della timidezza giapponese. Le opportunità sono davvero svariate: locali per sole donne, per soli uomini, per gay, per lesbiche, o per chi ha gusti particolari (ero tentato di entrare in un posto dove il cartello di pubblicità all’ingresso aveva una piacevole signorina vestita da cameriera in rosa, poi ho desistito). Osaka è davvero un luogo camaleontico. Potrei scivolare tutti i giorni lungo le stesse strade e ogni volta sono sicuro che scoprirei qualcosa di nuovo. E ne sono certo perché l’ho già fatto. […]>>

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chiechanDal 19 al 31 maggio, presso il Teatro Eliseo di Roma, verrà messa in scena una delle ultime fatiche letterarie di Banana Yoshimoto, Chie-Chan e io. Tra gli interpeti: Caterina Carpio, Alessia Giangiuliani, Guglielmo Menconi, Francesca Porrini, Cinzia Spanò; scene di Guido Buganza e regia di Carmelo Rifici.

Adattamento teatrale del nuovo romanzo di Banana Yoshimoto, scrittrice contemporanea tra le più note ed amate, Chie-Chan e io racconta la storia di Kaori, una donna di quarantadue anni, e del rapporto profondo che la lega a sua cugina Chie-Chan, di cinque anni più giovane. È un legame particolare quello tra le due donne, una dipendenza affettiva che mette in crisi la libera esistenza della donna giapponese in cerca di emancipazione. Banana riprende in questo libro, leggero e profondo, alcuni dei suoi temi ricorrenti: la solitudine, la convivenza con la morte e, soprattutto, la famiglia come invenzione. La moda e l’Italia, sono due leitmotiv del racconto. Pur non essendo personalmente vittime del “fashion style”, le due donne vivono costantemente nel glamour. La vita pubblica di rappresentanza si pone così in contrapposizione con il silenzioso e pacato comportamento della vita privata, fatta di monotoni gesti. Il mistero della vita appartata delle due protagoniste ha il potere di colmare il bisogno di affettività in maniera più completa e appagante di quanto la famiglia di origine o un uomo potrebbero fare.

Come se non bastasse, è uscito anche un libro legato alla rappresentazione: Alberi adagiati sulla luce – Chie-Chan e io – L’inseguitore, curato da Giorgio Amitrano, Tiziano Scarpa e Adonis (Feltrinelli, 2008, 189 pp., 9 €)

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